Biglietto del concerto incriminato |
Non ero mai stata a San Siro prima d’ora.
A Milano ci sono 37° all’ombra. Non un filo d’aria, a tratti nuvoloso, abbastanza per lasciarti senza fiato e con il corpo pieno di microgocciole appiccicose, in certi casi, puzzolenti.
Più di 78.000 portatori urlanti di gas e acqua aromatizzata, sono presenti all’evento dell’anno. Me compresa.
Oltrepassati i cancelli alzo lo sguardo verso l’alto. L’astronave parcheggiata che mi sovrasta, imponente e inquietante mi ha letteralmente prosciugato l’ultima riserva d’aria custodita gelosamente nel più nascosto meandro dei miei polmoni.
“ Amore, ho comprato i biglietti per il concerto dei Take That. Sarà meraviglioso vederli ancora insieme.”
Sarebbe stato meraviglioso semplicemente vederli.
Terzo anello verde non numerato. Più o meno all’altezza della terzultima fila, a partire dal prato. Se considerate di poter contare i presenti dal basso verso l’altro noi eravamo la settantasettemila novecentocinquantesima persona presente.
Ho iniziato il cammino per salire verso l’olimpo di San Siro inconsapevole. Possiamo sorvolare sul fatto che la mia pressione, talmente bassa da affossare anche un rinoceronte, non mi permette di camminare in salita alla velocità di un umano qualunque ma il percorso circolare avrebbe stordito anche il più lucido dei mammiferi esistenti. Io anche in condizioni ottimali non sono mai stata un mammifero alquanto lucido pertanto ancor prima di metà percorso vedo la Madonna di Fatima, di cui ho il fresco ricordo in quanto è stata in visita a Bergamo poche settimane fa.
Finalmente raggiunto il terzo anello esco dall’infausto tunnel circolare verso lo stadio e vi garantisco che la veduta d’insieme dall’alto, da così in alto è incredibile. Il fiato già l’ho perduto ma qualora me ne fosse rimasta una piccola botticella è senza dubbio svanita alla vista di quel panorama. Mi riposo a lungo e capisco che il mio viaggio verso la meta, il posto a sedere, non è terminato.
“Dai amore, siamo quasi arrivati.”
Quasi arrivati, sono venticinque minuti che saliamo vertiginosamente. Poi mi appaiono come un incubo indesiderato i gradini. Era notevolmente meglio il tunnel circolare. E’ proprio vero che non bisogna mai denigrare niente.
Gradini con una pendenza dell’ottanta per cento ed una misera larghezza di dieci centimetri. Se avessi saputo di dover fare anche freeclimbing mi sarei attrezzata meglio. Invece ho indossato le ballerine nere con la suola di cuoio. Volevo sembrare carina. Carina un corno.
Ci sono, sono arrivata. E’ come stare su di una mongolfiera che sorvola lo stadio.
Il palco è favoloso e, ad occhio e croce, enorme. Le persone che si trovano sotto il palco sono grandi, alla mia vista, non più di un centimetro e mezzo.
Per quanto mi riguarda può cantare chiunque e spacciarsi per Robbie Williams, non lo riconoscerei nemmeno se fosse il re del formicaio.
Il palco sembra alquanto tecnologico. Una pista per le macchinine a semicerchio sovrastata da uno spiderman in ferro gigante che controlla dall’altro.
Poi eccoli, li vedo, sì, sono proprio loro, due maxischermo enormi.
Sì, posso riconoscerli; posso vedere i Take That dal vivo.
Finora ho scherzato su questa mia piccola avventura ma obiettivamente il costo del biglietto, il sudore versato, la fatica ed il viaggio, tutto assolutamente tutto è stato ampiamente ripagato dai venti minuti di concerto da solista di Robbie Williams.
Ci sono persone da tutta Italia, da nord e da sud, stranieri, probabilmente turisti, persone che hanno organizzato la propria vacanza in funzione di questo concerto, europei e non solo.
Io vengo da Firenze per lui e vi garantisco che non delude, non delude mai.
Hanno aperto il concerto i Pet Shop Boys. La prima canzone mi ha entusiasmato, la seconda l’ho cantata e ballata alla terza volevo che sparissero loro e tutti i pixel presenti.
Poi arrivano loro ma lui non c’é. Mi preoccupo, lo cerco.
Mi lascio trascinare dalle vecchie melodie dei quattro ragazzi inglesi, tiratissimi nei loro gilet su misura che tentano di conquistare il pubblico con un cumulo di chiacchiere di incomprensibile italiano.
Cantiamo tutti insieme, su loro gentile richiesta, l’Inno di Mameli al termine del quale tra urla e luccichii di migliaia di flash a testimonianza della presenza di ognuno di noi, inizia la vera serata.
Ma è solo quando appare lui che il pubblico impazzisce, canta a squarciagola, balla, salta, si strappa letteralmente i capelli, esulta ad ogni sillaba, smorfia e ammiccamento che produce visibilmente ingigantito dai preziosi maxischermo per i non vedenti della penultima fila in alto.
Quando compare il suo volto dopo la breve performance da coniglio e si fa calare dall’alto dello schermo centrale, annulla completamente quanto successo fino ad allora. I Take That, spariti all’istante.
Con Rock Deejay il pubblico riconosce il vero leader della serata, si emoziona all’entusiasmante versione live di Feel ma è solo all’introduzione di Angels che 78.000 persone cantano e incoronano Robbie re indiscusso del concerto. I brividi, il cuore che palpita. Ogni calo di pressione, goccia di sudore versata, ansimo in salita, eliminato, soppresso, dimenticato.
Uno spettacolo indimenticabile, un Robbie Williams grandioso.
E i Take That?
Chi?
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