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VIGNETO A FORMA DI CUORE di Monica Brini

Cuori. Acquarello di M.Brini
Sono solo pochi mesi che abito qui e soltanto oggi mi sono accorta che quel vigneto, difronte a casa mia ha la forma di un cuore.
Un cuore perfetto, un cuore gonfio.
Il colore rosso amaranto delle foglie d’autunno, completano la reale fotografia del pittoresco panorama che mi sorveglia ogni mattina.
“Che strano. E’ veramente un cuore. Un cuore enorme. Chi avrà avuto la bizzarra idea d’impiantare un vigneto, in un terreno a forma di cuore?”
Sta diventando un’ossessione. Appena sveglia, apro la finestra per assicurarmi che il cuore ci sia ancora. Quando mi rilasso in giardino, a volte, senza rendermene conto, alzo la testa per controllare se vi sono movimenti all’interno del vigneto a forma di cuore.
Un giorno decido che dovevo saperne di più.
Ho appena mangiato la mia dietetica insalatona quando sento forte il desiderio di raggiungere il vigneto.
“C’è qualcuno al centro del cuore. Forse è lui il romantico ideatore.”
Mi infilo gli stivali di gomma e cammino con passo veloce e grottesco fino al punto esatto in cui penso di trovare il ricercato vigneto.
Percorro quasi tre chilometri di mezza salita poi di colpo mi fermo.
Il vigneto non c’è. Mi giro. Vedo perfettamente la mia casa pertanto il vigneto deve essere lì ma non c’è.
“Incredibile. E’ sparito. Non è possibile. Un vigneto non può sparire.”
Guardo nuovamente verso casa, poi lentamente mi giro simulando la punta di un compasso per trovare il punto esatto opposto alla mia finestra.
Niente da fare. Non lo vedo.
Senza fretta torno a casa pensando a dove sarà finito il vigneto. Temo di non rivederlo più.
La piacevole sorpresa mi accoglie quando entro nel giardino di casa e rivolgo lo sguardo verso il paese. Lui è là. Rosso, gonfio, immobile.
L’emozione mi avvolge completamente e decido che per oggi può bastare. Meglio non esagerare. Entro in casa e non ne esco fino al giorno seguente.
Domenica. Ho un giorno intero a disposizione per risolvere il mistero del cuore scomparso.
Benchè sia domenica c’è un gran movimento. Trattori, fuochi accesi nelle radure sulle colline, braccianti con attrezzi sulle spalle o attorno alla vita che passeggiano nei vigneti e di tanto in tanto si soffermano qua e là. La potatura.
Prendo il cannocchiale, quello che mi regalò il mio babbo convinto che durante il campo estivo dei miei diciott’anni mi sarei dedicata al birdwatching e guardo in direzione vigneto.
Ci sono decine di persone impegnate nell’accudire l’organo pulsante dalle dimensioni esagerate.
Questa volta non posso sbagliare.
Prendo la macchina per essere sicura di non dar loro il tempo per scomparire di nuovo.
In quattro minuti esatti, curve comprese, sono là. Parcheggio sul ciglio della strada, dietro ad un trattore rosso dalle ruote sproporzionate.
Eccole lì. Almeno venticinque persone stanno chine sui filari intente nella drastica potatura invernale. Mi avvicino.
“Mi scusi.” “Scusi signore.” “Senta, posso farle una domanda?”
Mi guardano come fossi un marziano e non mi rispondono.
Sembrano automi comandati e concentrati, privi della capacità di parola.
Nascosto dietro un cipresso, seduto su di un tronco, vedo una persona anziana.
Un uomo, con un cappello di paglia ed un bastone appoggiato a terra.
Mi avvicino piano, controllando che non stia dormendo.
“Mi scusi signore. Abito in quella casa là di fronte, in pietra, con quella fila di cipressi…”
“…e un ginko biloba in giardino.” Mi risponde l’anziano apparentemente assopito.
“Sì. Come fa a saperlo?”
“L’ho piantato io.”
Come l’ha piantato lui?
“Come l’ha piantato lei?”
“Scusi ma lei cosa vuole? Non vede che stiamo lavorando?”
“Loro stanno lavorando. Lei mi sembra più che altro un guardiano.”
“Ha ragione. Devo assolutamente controllarli. Sono tutti polacchi e non hanno molta pratica con le cesoie. In compenso costano poco.”
Ora capisco perché non mi hanno risposto.
“Mi chiamo Margherita e vivo qui da qualche mese.”
“Ciao Margherita. Io sono Gino e vivo qui da tutta la vita.”
“Senta Gino, questo vigneto è suo?”
“Sì. Da sempre, perché?”
“Lei lo sa che il suo vigneto è a forma di cuore?”
Il Signor Gino ha come un fremito, una delicata carezza, un brivido che istintivamente gli provoca un piccolo sobbalzo.
“Sì, lo so. Sono io che l’ho voluto proprio così.”
Capisco che c’è molto da dire e delicatamente gli chiedo: “Le và di raccontarmi com’è andata?”
Il Signor Gino mi guarda cercando di carpire le mie intenzioni.
Non ci sono obiettivi, secondi fini la mia è solo semplice curiosità femminile, lui lo capisce e finalmente apre quel guscio spezzato da tempo ed inizia a raccontarsi ad un’estranea impicciona e goffa qualunque.
Rodolfi Geltrude alias Maria
“Maria era la ragazza più bella del paese. Simpatica, colta e intelligente. Aveva dei lunghissimi capelli rosso mogano e delle gambe sottili che la facevano sembrare irraggiungibile. Tutti erano innamorati di lei. Io compreso. Lei scelse me. Ci sposammo giovanissimi con mille progetti ma mio padre morì poco dopo ed io ero l’unico in famiglia che poteva gestire l’azienda agricola. Così restammo in questo paese per il resto dei nostri giorni. Ci amavamo molto. La nostra vita fu comunque meravigliosa. Avemmo cinque figli, tre femmine e due maschi, Marta, Marica, Marusca, Marco e Marcello, in quest’ordine. Lei avrebbe voluto vivere in città, frequentare teatri, viaggiare ma io ero legato a questa terra e non potevo e non volevo abbandonarla. Lei soffriva in silenzio ma mi è sempre stata vicino appoggiando ogni mia bizzarra decisione. Vendiamo l’uva. No, vendiamo il vino sfuso. No, vendiamo l’azienda. No, compriamo l’azienda del vicino. Aveva sempre un sorriso dolce e gentile per ognuno. Decisi di ringraziarla nell’unico modo che io conoscevo. Per due anni consecutivi lavorai su questo vigneto. Feci un progetto, lo disegnai, lo cancellai e lo ridisegnai fino a quando non fu perfetto. Un cuore perfetto. Cominciai lo scasso del terreno. Aspettai che si assestasse ed impiantai 2500 barbatelle. Cento per ogni anno che avevamo già trascorso insieme. Solo lei, dalla finestra della nostra casa, poteva vedere il cuore. Da nessuna’altra posizione si sarebbe visto. Ogni giorno affacciandosi poteva vedere quanto io l’amavo. E’ morta l’anno scorso e ho subito lasciato la nostra casa. Ora vivo qui in quel fienile sulla punta del cuore, da solo. Ho molti nipoti perfortuna e veramente solo non sono mai.”
Non ho avuto il coraggio di interromperlo nemmeno per respirare e difatti al termine del racconto scoppio in un pianto convulso ed affannato. E’ la storia più romantica, più triste, più tutto che io abbia mai ascoltato.  Sono felice e riconoscente e mi sembra tutto così incredibile.
“Mi sembra inverosimile che proprio io viva in quella casa e possa godere dalla mia finestra questa vista stracolma di sentimenti così forti.”
“Difatti non lo è. Tra tante persone che hanno visto la casa, io ho scelto lei. Lei era l’unica che possedeva un nome tale da poter continuare la nostra tradizione di famiglia.”
“Ehi, di chi è quella specie di ferraglia dietro al trattore.”
Un grido fragoroso che replicò per tutta la valle ci ridesta dal nostro piccolo mondo rosa.
Mi giro e vedo un gran bel ragazzone in jeans arrotolati, stivaloni di gomma e camicia a quadrettoni leggermente sbottonata sul davanti. Un cappellino con la visiera portato all’incontrario lo rendono più umano e meno sgodevole.
“E’ mio figlio. L’ultimo. Marcello. Mi sta aiutando con le potature. E’ l’unico a non avere ancora una famiglia. Sembra burbero ma è un simpaticone. Comunque le consiglio di spostare la macchina.” - Mugola Gino con un sogghigno compiaciuto.
“Arrivo. Aspetti un minuto. Non mi travolga la macchina. E’ la mia. Poi non è affatto una ferraglia.”
Mi avvicino di corsa per timore che mi trascini l’auto in qualche fosso.
Da vicino è molto più carino e sembra anche meno rozzo. Gli porgo la mano.
“Salve. Mi chiamo Margherita. L’auto è la mia, la sposto subito. Anzi mi scusi tantissimo.”
Lui mi guarda e mi fulmina con un sorriso dolce e gentile, probabilmente lo stesso della madre.
“Marcello. Lei è la Margherita della nostra casa?”
“Sì. Sono io.”
“Se mi lascia le chiavi gliela sposto io l’auto. Mancano dieci minuti all’ora del te. Le va di fermarsi con noi?”
Non posso e non voglio resistere.
“Sì volentieri.”

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